venerdì 7 aprile 2017

E' iniziata la Terza Guerra Mondiale?

Da molto tempo, ormai, la crisi della Siria, con i massacri e la distruzione del Paese, è diventata meno importante della sua narrazione. E la rappresentazione della crisi si è trasformata in un potente strumento della politica internazionale. Guardiamo con attenzione a ciò che è appena successo: nel giro di ventiquattr’ore o poco più, un isolato aereo dell’aviazione di Bashar al-Assad lancia bombe chimiche su un centro della provincia di Idlib occupato da ribelli e jihadisti e uccide un centinaio di civili; immediato parte lo sdegno internazionale; si riunisce il Consiglio di Sicurezza dell’Onu; ancora qualche ora e 60 missili Usa distruggono una base dell’aviazione siriana.


Tutto impeccabile, tutto regolato con precisione svizzera. Fin troppo, no? Perché Assad, che con l’aiuto di russi e iraniani sta lentamente vincendo sul piano militare, doveva compiere un gesto così folle e perdente? Perché gli americani, dovendo colpire, si sono limitati a un bersaglio così circoscritto? Perché i russi, che non potevano non sapere di quanto si stava preparando, hanno lasciato fare? E ancora: perché Trump ha così frettolosamente e clamorosamente smentito quanto aveva sostenuto per tutta la campagna elettorale (no al cambio di regime in Siria, sì a una intesa con Mosca) che lo ha portato alla Casa Bianca? Perché Putin ha così blandamente difeso l’alleato Assad in questa circostanza, visto che sostenere che l’aviazione siriana aveva comunque colpito un deposito di armi chimiche suonava come una mezza ammissione?

Da tutta la vicenda si leva un forte odore di teatro, di rappresentazione appunto. Che pare costruita per alleviare le difficoltà dei protagonisti, Usa e Russia per primi, che sotto tanti aspetti si somigliano. Partiamo dalla Russia. Vladimir Putin l’ha riportata in Medio Oriente non per un’operazione spot ma per una strategia di lungo periodo. Ha stretto alleanze importanti con Iran e Turchia, sta allargando l’influenza russa in Nord Africa (soprattutto attraverso la partnership con l’Egitto, decisiva anche per influire sulla situazione della Libia), prova a costruire un rapporto con Israele, spiazzando tutti con l’annuncio di voler riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato ebraico. Mossa che fi qui si era permesso il solo Costa Rica. Quando Trump, qualche mese fa, aveva fatto un blando cenno all’idea, era stato in pratica crocefisso.

Nello stesso tempo Putin sa di aver raccolto in Siria tutti i dividendi politici possibili. D’ora in poi per il Cremlino, da quelle parti, saranno solo grane: trattative di pace, sia a Ginevra sia ad Astana, che non portano a nulla e un futuro prevedibile a base di attentati e guerriglie. È il momento di pensare a qualcosa di nuovo per uscire dal pantano.

Trump non è messo meglio. La sua Siria è l’Iraq, dove tutto è fragile. Dopo gli anni dei finti bombardamenti di Obama contro l’Isis, i generali Usa hanno visto che cosa vuol dire condurre davvero una guerra in città: hanno ammazzato centinaia di civili a Mosul, proprio come avevano fatto russi e siriani ad Aleppo. I media, complici, coprono le stragi Usa ma i generali hanno fermato tutto. E poi c’è la grana dei curdi: appoggiati dagli Usa hanno aumentato le pretese e in Iraq fomentano il separatismo del Kurdistan, che ora vuol prendersi anche Kirkuk. Il che vuol dire alzare la tensione con la Turchia (che vede rosso quando si parla di curdi) e con l’Iran (nume tutelare del Governo sciita di Baghdad). In più, Trump ha bisogno di liberarsi della trappola in cui Obama e i servizi segreti l’hanno abilmente cacciato, ovvero il sospetto di essere troppo amico di Putin e succube (se non complice) della Russia.

È da complottisti pensare che questa crisi delle armi chimiche sembri fatta apposta per andare incontro alle esigenze sia di Trump sia di Putin? Chissà, forse sì. Ma se invece è no, in tutto questo c’è qualcuno che deve cominciare a tremare sul serio. Il suo nome è Bashar al-Assad. La soluzione al rebus siriano può passare solo per un accordo internazionale che metta d’accordo Usa e Russia ma anche Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele. E la condizione non sufficiente, ma necessaria, e in ogni caso altamente simbolica, è che il leader siriano si faccia da parte. Quest’ultimo teatrino, più che un aggravamento della crisi, pare una prova di dialogo.

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